Oggi non riesco a frequentare i social media! e per capire come mai è sufficiente guardare il calendario.
Oggi è il 12 aprile 2018 e ieri sera la vecchia signora del calcio italiano (la Juventus) è stata buttata fuori dalla Champions League dal Real Madrid di Cristiano Ronaldo grazie ad una decisione a dir poco dubbia dell’arbitro e questo ha scatenato, oltre al dolore dei tifosi della Juventus, anche lo scherno e gli sfottò (forse anche il piacere) dei loro opponenti.
Io non appartengo a nessuna delle due fazioni, anzi, per la verità non seguo il calcio, non mi interessa molto.
Ma il fenomeno del “tifo contro” mi attrae e mi incuriosisce. Come mai non si sia così in grado di empatizzare con una squadra italiana che si confronta con un avversario in europa, una squadra spagnola. So bene che leggendo queste righe ognuno ha delle buone motivazioni per cui amare o odiare la Juve e tifare a favore o godere per la sconfitta!
Non sono interessato a questi motivi, a queste argomentazioni o abitudini; a me interessa capire come mai un episodio come questo è in grado di scatenare così tante, diversificate e potenti emozioni? A me interessa capire come si creano in modo automatico nella nostra mente i gruppi del “noi” e del “loro“.
Anche io, a modo mio, lascio che la competizione muova le mie emozioni benché mi trovi a preferire altri sport nei quali manifestare la carenza di intelligenza sociale, ovvero della mia incapacità di entrare in empatia con persone che in qualche modo fanno parte del mio gruppo sociale e che non riesco più a riconoscere come tali.
Nascono quindi emozioni piacevoli quando una persona che fa parte del mio gruppo allargato ha una disgrazia: riprovevole!!!
Intanto che nome ha questa emozione? Consultando “l’atlante delle emozioni umane” di Tiffany Watt Smith ho scoperto che esiste una definizione, un nome, specifico: Schadenfreude.
Vi riporto la definizione dell’atlante: [Quel brivido di gioia inattesa che proviamo quando veniamo a sapere della sciagura che ha colpito qualcun altro è un piacere deliziosamente clandestino. Certo, abbiamo cura di sfoggiare la nostra migliore faccia triste quando un nostro amico o la nostra amica più attraente viene piantato/a. Ma dietro il nostro commiserare c’è un piccolo palpito di eccitazione, che ci fa brillare gli occhi, sollevare gli angoli della bocca. Gli antichi greci ammettevano di poter provare una fitta di piacere nel sentire che gli altri stavano soffrendo, e chiamavano quella sensazione epichairekakia (letteralmente: rallegrarsi del male); i romani la chiamavano malevolentia, da cui deriva il nostro “malevolenza”. Oggi, però, la parola utilizzata più di frequente è Schadenfreude – dal tedesco Schaden (danno) e ^reuìe (piacere). Parliamo di Schadenfreude per indicare il godimento illecito della sfortuna altrui, in contrapposizione a sentimenti più diretti come il disprezzo o il compiacimento.]
Ma se questa emozione si attiva la domanda è: per quale meccanismo della nostra mente lo fa?
Il fenomeno è spiegato dalla cosiddetta “sindrome E“, teorizzata dagli studi del neurochirurgo Itzhak Fried.
Questa sindrome spiega il motivo per il quale riusciamo ad odiare improvvisamente persone con le quali fino ad un istante prima abbiamo preso un caffè o passato tempo di qualità assieme.
Vi riporto un estratto dal meraviglioso libro “Il tuo cervello, la tua storia” di David Eagleman, un brillante neuroscienziato che riesce a raccontare in modo facile questo meccanismo naturale e profondo della nostra mente.
“LA SINDROME E”
Com’è possibile che l’indebolimento della reazione emotiva c’onsentaa un individuo di far del male a un’altra persona?
Il neurochirurgo Itzhak Fried fa notare che, osservando azioni violente in giro per il mondo, potete individuare ovunque lo stesso tipo di comportamento. È come se le persone si scostassero’ dalla loro normale funzione cerebrale per agire in maniera specifica. Proprio come un medico per diagnosticareta potmonite controlla i sintomi della tosse e della febbre, così Fried ipotizzò che si possano cercare, e identificare, particolari comportamenti che caratterizzano gli autori di atti violenti, e li battezzò « Sindrome E ». Nel quadro teorico di Fried, la sindrome E è caratterizzata dall’indebolimento della reattivita emotiva, il che permette di compiere ripetuti atti di violenza: include altresì uno stato di sovreccitazione, in tedesco Rausch (ebbrezza, sbornia), un senso di esaltazione provocata dagli atti stessi. È un contagio di gruppo: tutti lo fanno e fatto si diffonde e prende piede. Esiste una categorizzazione che permette a un individuo di prendersi cura della sua famiglia, mentre commette violenza contro la famiglia di un’altra persona.
Dal punto di vista neuroscientifico, il dato importante è che le altre funzioni cerebrali, quali il linguaggio, la memoria e la soluzione dei problemi, restano intatte. Se ne ricava che non si tratta di un cambiamento che coinvolge tutto il cervello, ma si limita alle aree preposte alle emozioni e all’empatia. È come se avvenisse un cortocìrcuìto: quelle aree cerebrali non partecipano più alle decisioni. Le scelte del colpevole sono invece alimentate dalle parti del cervello che sovrintendono la logica, la memoria e il ragionamento e così via, ma non coinvolgono le reti emozionali, che spingono a considerare come si stia nei panni altrui. Secondo Fried, ciò equivale a disimpegno morale. Le persone non usano più i sistemi emotivi che in circostanze normali guidano le loro decisioni sociali.”
E’ fondamentale capire questo meccanismo perverso e combatterlo per evolvere come individui e appartenenti ad una società evoluta.
Imparare ad entrare in contatto con gli altri, non solo dal punto di vista razionale ma anche epatico è l’unico modo per riuscire a risolvere problemi complessi in un mondo sempre più complicato e la soluzione NON è lasciare che il gruppo degli “altri” diventi il pretesto per odiare senza risolvere.
Noi e loro sono pronomi ancora troppo presenti nei dialoghi nelle aziende, nelle squadre e nei gruppi sociali che avrebbero ottimi motivi per usare solo il pronome “noi” evitando di creare fratture ed utilizzando l’intero potenziale del gruppo piuttosto che lasciarsi guidare da meccanismi arcaici e poco evoluti.
La difficoltà è evidente ma lo sforzo paga in modo enorme: il ritorno dell’investimento emotivo del capire che la creazione di un aggregato forte che ci protegga è enormemente più utile e funzionale degli individualismi non è più solo utile ma necessario.
L’intelligenza emotiva ci aiuta in questo, in special modo nelle competenze relative al “comprendere le emozioni” ed “utilizzare l’empatia“, e ci permette di crescere imparando nuove competenze emotive e sociali e sviluppare la nostra attitudine a una migliore interazione con gli altri permettendoci di realizzare obiettivi enormi che da soli nemmeno potremmo sognare.
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